Le mucche non inquinano come il carbone. Vi spieghiamo il perchè.

Il recente Summit COP26 delle Nazioni Unite ha annunciato l’impegno di ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030 per contrastare il cambiamento climatico. A questo annuncio hanno fatto seguito una serie di discussioni per trovare il capro espiatorio. E si sa, le mucche sono uno dei target preferiti.

La ragione di questa persecuzione risiede nelle emissione di metano imputabili ai processi digestivi dei bovini, oltre che all’emissione di metano, anidride carbonica e ossido di azoto, proveniente dal letame usato per concimare i campi. 

Il report annuale della EPA (l’Agenzia statunitense per la Protezione dell’Ambiente) riporta che il 27% delle emissioni di metano negli Stati Uniti sono causate unicamente dalla digestione del bestiame, mentre meno del 10% deriva dall’agricoltura. Alcuni modelli stimano che l’impatto del metano sul riscaldamento globale sia 25 volte maggiore di quello dell’anidride carbonica nel breve periodo. Da aggiungere che questi 2 gas rappresentano da soli il 90% delle emissioni di gas serra negli Stati Uniti. E’ vero che tutti i settori, incluso quello dell’allevamento, devono ridurre le emissioni di gas serra ma e’ necessario entrare nel merito della questione per evitare di trarre facili (ed errate) conclusioni.

L’allevamento fa parte di un ciclo naturale del carbone organico, che e’ diverso da quello del carbone.  Come si puo’ vedere il carbonio prodotto dall’allevamento (metano e anidride carbonica) viene riciclato dalle piante e ricondotto agli animali attraverso l’alimentazione. Cosa significa questo? Che se consideriamo globalmente costante il numero di animali da allevamento nell’arco di 10 anni, nessun aumento di metano o anidride carbonica sarebbe rilevato poiche’ le quantita’ rimarrebbero costanti. Infatti il numero degli animali da allevamento a livello mondiale e’ stabile negli ultimi 10 anni. I modelli che stimano il surriscaldamento globale non considerano questi elementi come parte del ciclo naturale del carbonio, di fatto sovrastimando l’impatto che l’allevamento ha sul surriscaldamento globale.

La FAO (Food and Agriculture Organisation) stima che il circa il 18% delle calorie ed il 34% delle proteine consumate siano di origine animale. Inoltre l’86% del mangime animale non è adatto al consumo umano e questo viene coltivato per la maggior parte in aree dove non e’ possibile produrre cibo per il consumo dell’uomo. Al contrario i sottoprodotti del consumo umano (come per esempio I gusci di soia o di mandorla) sono un alimento valido per il bestiame, consentendo di ridurre i rifiuti in modo sostenibile.

Va considerato inoltre che l’industria dell’allevamento ha compiuto e compie tuttora sforzi per aumentare l’efficenza e la produttivita’. E’ sufficiente considerare che siamo passati da 26 milioni di mucche nel 1940 ai circa 9 milioni di oggi, ma la produzione di latte e’ aumentata di 55 miliardi di kg nel 2021 rispetto al 1940. Cio’ e’ stato possibile ottimizzando gli spazi, l’alimentazione e il consumo d’acqua negli allevamenti, consentendo un dimezzamento delle emissioni di metano a parita’ di quantita’ di latte prodotta.

Dunque affermare che l’industria dell’allevamento ha un impatto ambientale simile all’industria del carbone e’ forviante, poiche’ non tiene conto dell’importanza che esso ha per l’alimentazione umana, ma al tempo stesso non vengono considerati neanche gli sforzi fatti per migliorare la sostenibilita’.

L’innovazione nel settore agricolo continuera’ a migliorare e di conseguenza ridurra’ l’inquinamento da metano e anidride carbonica prodotto dal bestiame, aiutando nella lotta contro il cambiamento climatico. Pertanto e’ necessario continuare a concentrare gli sforzi sull’industria dell’allevamento al fine di garantire la disponibilita’ di cibo e ridurre il piu’ possibile le emissioni generate.

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